BATTERE MARZO

NOZIONI STORICHE SUL CAPODANNO VENETO 

La festa cadeva nell'ultima domenica di febbraio. Allora era la manifestazione spontanea della gioia che invadeva gli animi della gente veneta, costretta a restare chiusa nella case e nelle stalle per quattro o cinque mesi, quando il primo tepore primaverile scioglieva il ghiaccio che d'inverno interrompeva i rapporti e le normali comunicazioni sia fra le contrade che con il centro del paese. Verso l'imbrunire, dopo essersi radunati a frotte nelle loro contrade, centinaia di pastori, mandriani, contadini, e le loro famiglie andavano in paese, abbigliati con fogge e costumi stravaganti, in corteo compatto tra un frastuono indiavolato.

Ornamenti fatti di rami e fronde, abiti vecchi dai colori vari e vivaci, fiori secchi sul cappello alla montanara costituivano l'abbigliamento maschile, mentre le contadinelle indossavano gli abiti migliori, adorne di trine, merletti e dei primi fiori. E in mezzo al grande, allegro corteo non potevano mancare gli animali: somarelli riccamente adornati e infiorati, buoi, capre e perfino conigli e galline, che insieme agli uomini avevano condiviso i lunghi giorni dell'isolamento invernale. Tutti si ritrovavano nella piazza con i propri attrezzi di lavoro, i propri armenti e con ogni possibile arnese trasportabile.

Alla testa della folla sfilavano per primi i cacciatori, armati di vecchi archibugi con i quali più tardi, mentre si intrecciavano le danze, salutavano a salve l'arrivo di marzo. Il corno, il "rècubele" e le "snatare" (nell’area montana) completavano il gaio frastuono, mentre i bambini agitavano campanelli e le campane suonavano a festa. I gruppi intonavano le "cante" e qualcuno si esibiva in giochi di abilità e acrobazia. Dopo il tramonto veniva acceso il falò sul quale bruciava "l'inverno", rappresentato da una sagoma di paglia.

Le probabili origini della festa sono assai remote. Fin dagli antichi Greci sappiamo che si celebrava con feste e con canti la nascita di Venere, che cadeva appunto nel mese di marzo: come dire il sorgere dell'amore, il risveglio dell'uomo e della natura dalle cupe ombre in cui li aveva avvolti l'inverno. Per i Romani le Calendie Marzie segnavano addirittura l'inizio dell'anno e appunto in marzo erano tenute le grandi assemblee generali. Marte era una divinità agraria di origine italica che divenne anche dio della guerra quando gli agricoltori che si affidavano alla sua protezione si trasformarono in soldati. Figlio, a seconda delle leggende mitologiche, della dea Febbre o di Giunone era considerato il dio che presiedeva alla rinascita primaverile della vegetazione, in particolare al rifiorire degli alberi. In definitiva era allora venerato come il dio protettore delle due attività più proprie dei romani: quella agricola e quella bellica. L’attribuzione del nome Martius (marzo) al primo giorno dell’anno, all’inizio della primavera, aveva quindi il significato di voler propiziare l’intervento del dio sull’annata per un felice esito sia delle loro attività agricole, sia delle loro spedizioni militari.

“Battere marzo” si celebra quindi con la primavera e arriva anche la Pasqua. Ancora una volta in quel mescolarsi di sacro e profano la vittoria del Cristo sulla morte nella resurrezione, l’equinozio primaverile è la vittoria della vita che fa rinascere la campagna così che piante e animali possano partorire i loro frutti. La terra ritorna feconda e tutta la natura è impegnata in questo atto. Anche il vento primaverile svolge la sua funzione che è quella di favorire l’impollinazione.
Nel dialetto veneto la parola “verta” (aperta) significa primavera. Una parola straordinaria per la sua pregnante profondità, per il suo contenuto sessuale. Come una grande madre la terra si apre per dare il suo frutto.

Il fatto che questa tradizione sia passata di generazione in generazione, di popolo in popolo, riuscendo in qualche modo a sopravvivere fino ai nostri giorni, è testimonianza di quanto radicata, spontanea ed intimamente sentita sia l'usanza di "Chiamare Marzo" nella storia della gente veneta, anche in tempi in cui tutto o quasi tutto ciò che ci circonda tende a cancellare ogni traccia della nostra identità passata.

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RACCONTI ANTICHI 

A l’epoca de la, el Cao de ano, invesse che al  come previsto dal  e dopo da quelo, el cascava el . Sta tradission par che la vegna da l’antico calendario che doparava i prima de, che el faxéa scominsiar l’ano dal méxe de marso (e difati in sta maniera i mesi de setenbre, otobre, novenbre e diçenbre i vien a èsar efetivamente i méxi numaro sete, oto, nove e diexe come dixe el mome). Par no far confuxion, i Veneti de na òlta in parte a la datai i ghe scrivéa more veneto, cioè leteralmente “a la maniera Veneta”. Donca, la data, metemo, del “I4 febraro 1703″ a Venessia la deventava “14 febraro 1702 more veneto”. parché el febraro l’era efetivamente l’ultimo méxe de l’ano vecio, e el 1703 el scominsiava solo in marso.
El cao de ano el jera festejà co la festa del Bati Marso, che la se svolgéa apunto in tei ultimi jorni de l’ano, e la prevedéa de ‘ndar in giro par le strade batendo su cuercioli, pignate e altri strumenti muxicali “fati in caxa” faxendo un gran bordelo, con l’intento de far scapar via l’inverno e el fredo e propiziarse l’arivo de la bela stajon, par poter scuminsiar i laori ‘gricoli.
In tei ultimi ani, alcuni grupi culturali i xe drio çercar de far rivivar el Capodano Veneto riscoprendo la vecia tradission, che col pasar dei ani l’era ‘ndà in desmentegon.